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Food a Rule of Art - Conversation with Carlo Cracco

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A una settimana di distanza dalla conversazione con Davide Maria Oldani promosso nel ciclo di incontri di ‘Cibo a regola d’arte’, ospitato dal ‘Museo della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano,’ mi ritrovo in Sala Biancamano per l’incontro fra Carlo Cracco e Matteo Gatto (Direttore Tematic Spaces Expo Milano 2015) moderata da Beppe Severgnini.

L’incontro è previsto per le ore 12 ma io arrivo smisuratamente prima, come mia abitudine, e stavolta non sbaglio: alle ore 11 e 15 mi metto in coda e sono seconda, ma nel giro di mezz'ora la fila di persone che aspirano a poter assistere alla conversazione si allunga fino alla porta di entrata e io, soddisfatta, non penso nemmeno a quanto sia noioso stare in piedi per tre quarti d’ora perché so che ne varrà la pena.

C’è gran fermento in sala e si vedono tante mani stringersi mentre noi poveri diavoli della platea non possiamo che rimanere spettatori passivi.

Alle ore 12 e 15 circa sembra che l’incontro possa iniziare e i tre interlocutori prendono posto.

Beppe Severgnini parte col piede giusto, invitando tutti coloro che hanno preso parte all’incontro solo per sentir parlare di cuochi, Mastechef e popolarità ad andarsene, visto che i temi discussi sarebbero stati di ben altra natura: sopra ogni cosa, l’intento è quello di fornire chiarimenti sulle idee che verranno proposte all’Expo, evitando genericità, retorica e la patina di ‘già sentito e scontato’ che spesso accompagna eventi di questa portata. Detto così sembra scontato, ma l’obiettivo è davvero impegnativo, specialmente se si considera che le domande non sono state preparate a tavolino e il tema è delicato, nonostante Beppe ammetta di conoscere da diversi anni lo chef, il quale ricorda che il loro primo incontro risale al 2004.

La prima domanda è rivolta al direttore dei Tematic Spaces di Expo, Matteo Gatto, ed è particolarmente interessante per tentare di esplorare il ruolo dell’Italia all’interno dell’esposizione universale; Beppe chiede infatti come sarà possibile, vista la nostra lunga tradizione in termini di cultura culinaria di cui saremo portabandiera, coprire questo ruolo evitando di passare per quelli che vogliono (cito testualmente) ‘essere i primi della classe’.

Gatto spiega che per quanto sia innegabile che la nostra storia sia legata al cibo, l’evento Expo non si ferma a proporre una singola ricetta ma a indagare temi più ampi e rilevanti, quali le soluzioni per arrivare a sfamare quotidianamente il mondo intero e farlo nel modo corretto. Il ruolo dell’Italia, oltre a quello di essere portatrice di una vera e propria cultura, è quello di trasmettere al mondo ciò che sappiamo fare meglio, ovvero aggiungere la componente della ‘convivialità’ intorno al mangiare, dello stare insieme a tavola, sfruttando l’esposizione per farsi ascoltare dagli interlocutori giusti e introducendo il tema in un evento di più ampia portata che mira a indagare concetti delicati come il rapporto fra abbondanza e privazione, fra sostenibilità e rispetto dell’ambiente, inquadrandoli nella giusta prospettiva. In quest’ottica, il contributo non diventa solo quello del Paese ma di ogni persona che ha una propria micro-storia da offrire, secondo il principio che Davide Rampello spiegava in una semplice ma incisiva frase: ‘Storie di cibo, storie di uomini’.

Si apre a questo punto una breve parentesi su qualche dato: numero di aree (5), numero di cluster (9) ma anche l’importanza di uno spazio che verrà completamente dedicato al cibo in rapporto all’arte, ovvero la rappresentazione del mondo culinario nella pittura dal 1800 ad oggi.

Finalmente Cracco prende parola e per prima cosa ricorda la sua visita all’Expo di Shanghai, un’esperienza strutturata in modo completamente diverso da quella di Milano, in quanto era stata un'occasione per la Cina di dimostrare la propria forza e favorire la crescita interna del Paese, promuovendo un’esposizione che fosse prima di tutto per i Cinesi, tanto che la fila per gli stranieri che volevano entrare era nulla, mentre quella per i residenti si traduceva in perenni code chilometriche e inesauribili. Il nostro Expo sarà ben diverso, con un tema portante molto sentito ma anche aperto: dalla storia del cibo a scoprire quello che mangiamo, da immaginare come ci nutriremo in futuro al dimostrare che anche noi abbiamo molto da dire su questi argomenti. Lo chef ricorda infatti che spesso ci si lamenta dei provvedimenti che vengono presi dall’Unione Europea, ma che in realtà la forza di questa Unione di Stati sta nel lasciar proporre a tutti un’ordinanza e solo chi è capace di imporla, riesce infine a farla approvare: in questo senso abbiamo molto da imparare, per cercare di farci valere e costruire qualcosa che rimanga. Se infatti è innegabile la nostra storia, è anche vero che esistono Paesi molto più all’avanguardia nella comunicazione del cibo e che sfruttano al meglio le loro potenzialità, al contrario dell’Italia che pecca in alcuni temi fondamentali. Tanto per citare un esempio, Cracco spiega che bisognerebbe smetterla di far produrre fuori dall’Italia prodotti della nostra tradizione, perché così facendo non difendiamo la nostra ricchezza, che affonda le radici nella terra e nella manualità: non basta essere bravi nell’artigianalità e nel far valere la nostra storia, ma bisogna anche tutelarle e svilupparle. L’augurio dello chef è che l’Expo si tramuti in un sentimento generale, in un’occasione per definire regole sane e sostenibili per il pubblico, un veicolo per riscoprire il nostro valore e determinarne i parametri, ma soprattutto trasmettere la parte ‘sociale’ della nostra tradizione, ovvero la convivialità, senza ‘voracità’, ma guardando lontano.

Severgnini non può non sottolineare quanto i termini prettamente legati al mondo della cucina, al pari di quelli correlati a guerra e sport, abbiamo influenzato il nostro linguaggio odierno, e lo fa partendo da espressioni usate dallo stesso Cracco, come ‘tirarsi la zappa sui piedi’, ‘essere voraci’ e aggiungendo anche ‘mettere carne al fuoco’. Torna poi all’argomento di discussione, condividendo il pensiero di Carlo secondo cui l’Unione Europea coi suoi provvedimenti riguardanti la sicurezza alimentare siano fondamentali e che senza tali regole il mondo agricolo sarebbe potuto essere spazzato via; prendendo poi questo topic come spunto, chiede come possa essere possibile la tutela dei nostri beni senza destare l’irritazione di altri Stati che producono le nostre stesse materie. Il giornalista focalizza la domanda in particolare sull’olio, la cui produzione è stata addirittura discussa dal ‘New York Times’.

Lo chef introduce la sua risposta puntualizzando quanto sia delicato il tema dell’olio, vista la vasta produzione in tutto il bacino del Mediterraneo, dalla Grecia alla Spagna. I tipi di olive esistenti sono tantissimi e tutti diversi, non tutti buoni. L’Italia detiene la maggior quantità per diverse regioni e tipologie, alcuni da tagliare (da aggiungere in altri oli), altri monocultivar (per produrre oli di una sola varietà di olive). In Italia i coltivatori di olive si contano in cifre a tre zeri, ma sono ancora le grandi società a detenere la maggior parte del mercato. I tipi di olio più costosi sono tuttora utilizzati solo dagli appassionati e dai ristoranti di alta gamma. In ogni caso, la produzione italiana di olio extravergine è la maggiore per quantità e viene praticata anche in aree lontane dal mare; il problema è che tale quantità è pari a circa tre volte le aree coltivate del nostro territorio, quindi significa che le olive vengono importate. La materia è sicuramente nuova per molti degli spettatori, quindi lo chef spiega che una volta che le olive, come ogni altro prodotto, vengono importate e lavorate nel nostro Paese, il risultato finale che ne deriverà sarà considerato italiano e il compratore non avrà modo di verificare l’origine delle materie prime, visto che per legge non è obbligatorio scriverlo sulla bottiglia.

Durante l’intervento di Cracco, Severgnini aveva menzionato i riconoscimenti DOP e IGP che lo chef spiega essere molto importanti per determinare le aree di origine, mai indicate sulle confezioni di oli prodotti da grandi industrie che, comprando all’estero, hanno come unica preoccupazione il fatto che il prodotto non sia ‘cattivo’, ma che spesso non si rivela nemmeno essere olio vero; chiude poi sfatando il mito dell’olio a basso costo: se il prezzo è compreso fra i cinque e gli otto Euro è impossibile che sia un prodotto valido. Capita spesso anche a lui, ammette, di perdere tempo al supermercato per cercare di leggere l’etichetta che risulta essere incomprensibile, visto che vengono utilizzati nomi e categorie per classificare che in realtà non definiscono il prodotto: in poche parole, molta chimica ma nulla di specifico, creando così l’illusione di comprare un prodotto fresco quando non lo è.

Gatto a questo punto ci tiene ad aprire una piccola parentesi sul tema. Spiega che anche la sua famiglia fa parte della categoria dei piccoli produttori e che sin da piccolo quando abitava a Chiavari, il padre lo esortava ad unirsi alla raccolta delle olive taggiasche coltivate sulle terrazze. A parer suo la difficoltà della raccolta del prodotto non vale il prezzo a cui viene venduto.

A questo punto, Beppe cambia argomento e lancia quasi una provocazione, evocando le varie pubblicità di cibo in cui viene promossa una ridicola e artefatta tradizione secondo cui i prodotti industriali abbiano in realtà il dono della rusticità, chiedendo a Carlo se non gli sembri essere questo un segnale negativo.

Lo chef si trova d’accordo, ma chiarisce che tutto ciò fa parte del commercio e del marketing che poco hanno a che vedere con la tradizione vera e propria e col cibo. L’industria è indispensabile, ma deve seguire le stesse regole che vengono imposte ai piccoli produttori. L’obiettivo è infatti privilegiare le aziende medio-piccole ma puntando all’eccellenza dei prodotti, evitando quindi di far nascere colture sulla nostra terra se mai vi erano stati coltivate prima proprio per la mancanza delle giuste condizioni per farlo.

Beppe si rivolge quindi a Gatto e gli chiede se non sarebbe interessante dedicare un’area di Expo all’Italian Sounding, ovvero a quella serie di prodotti che italiani non sono ma vengono fatti passare come tali all’estero, usando escamotage quali la deformazione del nome dei marchi italiani per incrementare le vendite, o se forse risulterebbe essere un tema troppo scottante.

Egli conferma il suo interesse per il tema ma ammette che Expo rimane comunque un’occasione per imparare e migliorare, non una possibilità di promuovere leggi e manifestare la presunzione di sapere cosa sia giusto o meno fare. Ciò che si sta tentando di fare è imparare a nostra volta, mettendo in campo gli attori e usando l’esposizione come palcoscenico per dar voce a tutti. Egli ci tiene a menzionare un episodio relativo al rapporto che sta intercorrendo fra l’organizzazione di Expo e la FAO che vi prenderà parte: l’insegnamento che questa associazione ha portato è stato che non si può avere una soluzione per tutto ma piuttosto ci si potrebbe orientare verso la soluzione più corretta. Purtroppo l’evento non ha ancora raccolto l’adesione delle grandi distribuzioni ma si propone comunque di ospitare tanti protagonisti per sensibilizzarli su un unico tema.

Severgnini propone una spiegazione ragionevole sul perché le multinazionali non abbiano ancora aderito: il rischio è quello di trovarsi processate da un tribunale mondiale per poi doversi difendere. La domanda successiva è correlata a questo tema, ma focalizza sull’aspetto più ‘superficiale’dell’evento, ovvero se non ci sia la possibilità che diventi solo un grande talk show.

Gatto non sembra preoccupato dalla possibilità, visto che se dovesse succedere sarebbe comunque utile. Il tema è spettacolare e di certo attirerà Paesi che vorranno parlare dei problemi legati al cibo che li affliggono, ma è ugualmente genuino. In questo dibattito non ci sarà arbitro, ma ogni governo si troverà a dover cercare soluzioni.

Il giornalista si rivolge ora a Cracco per chiedergli se non possano questi sei mesi essere occasione per promuovere una ‘pedagogia alimentare’ nei confronti di Paesi che devono ancora imparare molto come gli USA, dove Severgnini ha lavorato e vissuto e di cui riconosce grandi lacune nella cultura alimentare.

Carlo ammette che il tema dell’Expo è molto chiaro, ma la difficoltà di trasmissione è la grande crisi che sta cambiando il mondo e l’Italia, ma della quale non vuole entrare in merito. Sta di fatto che noi rimaniamo ancorati su economie importanti come quella della moda e del vino, di cui siamo i primi produttori per quantità. Ammette poi che vantare questo primato non vuol dire quasi nulla, ma più importante è riconoscere che siamo anche in testa alla classifica di produttori di vitigni autoctoni per quantità. La nostra potenzialità risiede nella terra che deve essere rispettata, in quanto tenendola pulita e ordinata rimane produttiva e viva, altrimenti andrebbero a crearsi tutti quei fenomeni distruttivi come le frane e gli allagamenti di cui spesso siamo stati e siamo tuttora spettatori. Visto che era già stato portato l’esempio della Liguria, lo chef lo ripropone, spiegando quanto sia difficile da gestire come territorio, pur godendo di frutti importanti ed essenziali. Questa regione è anche il luogo dove è nata la dieta mediterranea (in realtà non una dieta in quanto tale, ma un modo di nutrirsi) che oggi è riconosciuta come patrimonio dell’UNESCO. Scoperta dagli Americani che hanno semplicemente osservato che nei nostri pasti abbondiamo di carboidrati e limitiamo la carne rossa, si tratta in poche parole dell’acquisizione di grassi buoni e della privazione di quelli saturi, favorendo così una giusta vecchiaia. A nessuno in Italia sembra davvero importare di questo capitale, mentre all’estero esistono vere e proprie aziende specializzate nello studio e riproduzione di questo stile di vita. Quello che non stiamo capendo è che il cibo come prodotto potrebbe diventare un’economia vera, e che bisogna creare un comparto di sviluppo agroalimentare per sfruttarlo poi durante Expo, un evento che diventa pretesto per produrre meglio e poi esportare i prodotti correttamente. È chiaro che non stiamo lavorando in questo senso, visto che spesso si affronta il problema di quanto sia difficile reperire materie prime all’estero. Per chiarire questo concetto, lo chef aggiunge che non a caso gli stranieri quando vengono in Italia mangiano le cose più semplici perché sono anche le più buone.

Beppe aggiunge a tal proposito che Lidia Bastianich ha spiegato in diverse occasioni di dover rinunciare a creare certi piatti a causa di questa mancanza al di fuori dell’Italia.

Carlo sembra essere molto sensibile sul tema e insiste sull’idea che invece di buttare tonnellate di pomodori bisognerebbe pensare di iniziare a venderli all’estero, proprio come fanno i francesi, che hanno un mercato in prossimità di Parigi attraverso il quale chiunque vada a lavorare al di fuori del proprio Paese si rifornisce, e da cui la stessa merce italiana passa prima di essere rivenduta. La domanda dunque sorge spontanea: perché non creare qui lo stesso mercato? Ciò che ci manca, continua, è il crederci veramente, l’idea di una crescita concreta del mercato interno. La promozione dei prodotti deve però essere mirata ed efficace, senza lasciare che possano essere snaturati e senza far radicare il fenomeno dell’Italian Sounding, rischiando di perdere preziose opportunità. Così come ci ha creduto la moda, così dovrebbero fare l’agricoltura, da cui tutto parte, e la cucina.

Beppe puntualizza che anche la moda ha perso in parte la sua credibilità, decidendo di puntanre alla quantità, e quindi facendo produrre fuori i propri capi per poi limitarsi ad apporvi la sola etichetta.

Dopo questa parentesi, cambia strada e chiede a Cracco un parere sulla forza del capitale umano di cui godiamo. Severgnini spiega infatti che dall’ ‘800 gi italiani hanno continuato a emigrare in Argentina, per portare, in relazione, su un totale di cento persone, novantanove operai e un giovane che apriva un’osteria in cui pian piano non solo i connazionali mangiassero ma anche i residenti, che riconoscevano così il valore della cucina italiana. L’intelligenza della tradizione culinaria del Belpaese risiede proprio in questo: essere una cucina che parte dal basso, al contrario di quella francese che viene generata dall’alto.

Carlo si trova completamente d’accordo. Gli italiani sono stati i primi ad aprire osterie, così come i francesi hanno diffuso i ristoranti. All’epoca di queste prime testimonianze il capofamiglia era anche l’oste, che trasmetteva la tradizione di generazione in generazione. Oggi purtroppo questa pratica è andata perdendosi ma sussiste ancora in parte ed è la base della nostra cultura.

Beppe tende a sottolineare che ognuna delle nostre regioni gode di una ricchezza in termini di prodotti e ricette che non esiste in nessun altro Stato del mondo.

Carlo è nuovamente in sintonia coi pensieri del giornalista. Se la cucina francese si è posta l’obiettivo di essere un modello di alta gamma, pur essendo in crisi in questo periodo, l’Italia ha sempre costituito il primo gradino di questa scala alimentare, attraverso i prodotti migliori, il gusto e la capacità. Il nostro obiettivo è quello di diffondere vino e formaggi, senza il bisogno di puntare ad un’altissima cucina che necessita di spiegazioni, e ha comunque bisogno delle basi, che è la nostra a fornire. Il nostro patrimonio è immenso e per farlo capire concretamente, lo chef spiega che una sola regione d’Italia potrebbe certamente sfamare interi Stati con le sue risorse. Certo è che la cucina di cinquant’anni fa non può più essere proposta oggi (anche solo se si considera che è cambiato il modo di lavorare e quindi nutrirsi, visto che i ritmi lavorativi erano molto più alti e la qualità del lavoro più impegnativa), ma partendo da essa ci si deve poi sviluppare.

Ormai il tempo per la conversazione è terminato, ma Beppe intende fare un’ultima domanda a Gatto, al quale chiede come sarà possibile trattare di temi così importanti cercando di evitare la retorica in cui si rischia di cadere.

Egli risponde che la possibilità che accada sussiste e non è trascurabile, ma è altrettanto certo che tutti questi rischi sia necessario correrli: molti pensano che non si riuscirà ad arrivare alla fine dei lavori in tempo e tutta l’organizzazione possa diventare una grossa ‘abbuffata’, ma la vera sfida è arrivarci e provarci comunque. La linea guida è l’idea che si stia facendo qualcosa di utile per il Paese e in merito al tema proposto. Poi riflette su ciò che aveva detto in precedenza e si corregge: chiude spiegando che in realtà un arbitro ci sarà all’Expo e saranno i visitatori.

Beppe si dice soddisfatto all’idea che nella conversazione sia stata evitata la retorica e tutti abbiano imparato qualcosa di nuovo. Me compresa.