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'Storie di coraggio': Oscar Farinetti, il vino e i suoi padri

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Metti che una sera al Centro Parrocchiale del tuo paese, Roveleto di Cadeo, venga invitato Oscar Farinetti a parlare del suo nuovo libro ‘Storie di coraggio’ e ne venga fuori un’interessante conversazione sulle famiglie che hanno dedicato la loro vita alla produzione del vino, da generazioni, e abbiano fatto la storia vitivinicola del nostro Belpaese… ecco, se tutto questo fosse successo, non vi piacerebbe sapere di come un oratore come mister Farinetti che viene dal mondo UniEuro e abbia desiderato parlarne? Ve lo spieghiamo noi.

Il colloquio si apre con una domanda molto semplice rivolta al patron di Eataly, ovvero perché sia nata l’idea di questo libro, che parla soprattutto di coraggio.

Per prima cosa Farinetti spiega che la prima esigenza è stata quella di comunicare qualcosa che è in via di estinzione: per il momento storico che stiamo vivendo infatti, più ci si lamenta e meno c’è coraggio, essendo queste due forze inversamente proporzionali; se a quest’esigenza si aggiunge la voglia di parlare di vino allora è facile capire come ne siano uscite storie di valori positivi, tanto contagiose quanto quelle negative, visto che la società cambia in base a esse. Il lavoro di Oscar è stato dunque quello di cercare buoni esempi, trovati nel vino, un mondo molto potente.

Passa poi a dare qualche dato e alcune informazioni, quali la portata mondiale di questo mercato, che si aggira intorno ai 60 miliardi annui, contro quello della Coca-Cola a 110. I primi sono ancora i francesi, mentre noi ci limitiamo al secondo posto, pur essendo un mercato di poesia che rappresenta più di ogni altro prodotto il nostro territorio. Così com’è magico il mercato del vino, lo è il mestiere di viticoltore, un professionista che aspetterà sempre il grappolo perfetto per il vino perfetto, che però non arriverà mai. Aspetterà il giorno della vendemmia, quello dei rimpianti o dei rimorsi, e una volta finito di fare il contadino si troverà a essere enologo, e il rapporto non sarà più con la terra ma con la botte. Dopo il tempo passato da enologo, diventerà direttore marketing, scegliendo la bottiglia, decidendo l’etichetta, il prezzo e costruendo tutto ciò che vi gira attorno, trovandosi dunque a essere un personaggio commerciale che promuove il proprio risultato e lo vende in giro per il mondo. Alla fine sarà direttore finanziario, immerso nella burocrazia, per poi ritornare contadino, alle origini. Il lavoro del viticoltore dunque è un ciclo a trecentosessanta gradi, un lavoro che ne comprende molti altri, e sopra a tutti quello della gestione dell’imperfezione.

La scelta dei protagonisti del libro è ricaduta su dodici famiglie produttrici di vino, con cui il nostro narratore ha trascorso molto tempo ma parlando pochissimo di vino e tantissimo di tutto il resto, ragionando sui grandi temi locali. Ogni capitolo del libro è una storia a sé, che ha potuto raccontare affiancato da un amico giapponese, nato il suo stesso anno (1954) e che ha il dono di natura di riconoscere sapori e profumi in un istante, essendo dotato di un palato affinato e soprattutto, come lo definisce Farinetti, ‘assoluto’. Ad accompagnare i due uomini in un viaggio di duemila chilometri su e giù per l’Italia, c’era l’instancabile addetta stampa di Oscar, Simona Milvo: i vini che avrebbero dovuto assaggiare erano più di sessanta, peccato che Simona fosse incinta e il giapponese prima degustava e poi sputava tutto.

Dopo un breve intermezzo di leggerezza grazie a questa e altre battute è il momento per una seconda domanda: quali sono i valori più importanti che costituiscono quello più grande che è il coraggio e com’è possibile diventare realmente coraggiosi?

Per l’imprenditore piemontese si può diventare tutto, non si nasce già come si è, altrimenti si uccide l’idea di futuro, ma l’importante è non mollare mai. La sua idea di coraggio è spiegata nella premessa del libro, e richiede l’intervento di cervello e cuore, di condivisione, e queste storie insegnano a farlo, nonostante sottolinei di frequente che di tali esperienze lui sia solo il narratore.

La potenza delle esperienze vissute in quelle pagine sta dunque nell’incontro con dodici personaggi, alcuni dei quali conosciuti e importanti. Il primo riferimento è quello ad Antinori, erede di una famiglia produttrice da ventisette generazioni, e il secondo a Niccolò Incisa Della Rocchetta, appassionato di cavalli, produttore di Sassicaia, che ‘parla elegantemente male di Berlusconi, senza dire parolacce’; è poi la volta di Costantino Charriere, produttore della Valle d’Aosta, che dopo una gioventù fra studi e altri lavori, è richiamato alle origini della sua terra e dalla sua famiglia e riesce oggi a produrre un vino incredibile che incontra spesso difficoltà a causa dell’altezza del territorio.

A questo punto è scontato il richiamo alla biodiversità di cui è ricca l’Italia: sul territorio nazionale spiega infatti esserci ben milleduecento vitigni autoctoni, sebbene quelli usati siano solamente quattrocento. Il vantaggio dei francesi in questo senso è la loro capacità narrativa, visto che i loro vitigni autoctoni si contano in numero di ventidue ma ne usano ben venticinque. Per spiegare questa differenza, Farinetti dice che noi italiani siamo ‘eroi solitari figli di eroi solitari’, mentre in Francia sono ‘figli della loro terra’.

Il successivo a essere nominato è Angelo Gaia come vero e proprio ‘sfidante’ dei francesi sul fronte prezzo; segue Peppe Rinaldi che si ostina a continuare a produrre solo trentacinque mila bottiglie all’anno, come faceva suo padre e prima di lui suo nonno, nonostante tutti chiedano il suo vino che viene completamente esaurito nel giro di pochi giorni. Il viticoltore Bucci viene nominato per parlare del tanto discusso ‘passaggio generazionale’, visto che pur avendo un figlio non delega nulla. Questo spunto apre una porta sul tema della differenza fra figli maschi e femmine, spesso sottovalutate in questo ambito, nonostante siano diversi gli esempi di figure femminili di spicco nel modo vitivinicolo: Chiara e Francesca Lungarotti ne sono due esempi importanti, specialmente perché, come fa notare Farinetti, aiutate dal carattere complementare.

È poi la volta di Alessio e Francesca Planeta, siciliani, di una terra che è da sola un vero pianeta, e che accolgono il loro ospite con un piatto di pasta, intavolando discorsi importanti come il rapporto con la terra madre che spesso non viene rispettata, come si può notare dalla campagna sempre più stanca: piccolo excursus dunque sull’agricoltura che deve guardare al passato, tornando a lavorare di più e senza diserbanti.

Visto che si è parlato in buona parte di figli e quindi dei giovani, viene chiesto a Farinetti cosa pensi delle nuove generazioni.

Per prima cosa egli spiega che se dipendesse da lui bisognerebbe cambiare innanzitutto l’articolo numero uno della Costituzione: ‘L’Italia è una Repubblica democratica fondata sulla bellezza che ci hanno lasciato i nostri avi e farlo col lavoro’. Il lavoro infatti dovrebbe passare da essere soggetto a oggetto o mezzo.

Entrati in argomento ‘lavoro’, l’imprenditore si permette una piccola digressione storica, spiegando che intorno al 1850, a metà fra due rivoluzioni industriali, è partito il modello sociale in cui tuttora viviamo, ovvero la società dei consumi, una società molto semplice, i cui passaggi fondamentali sono posto di lavoro, salario e consumo, ma consumando sempre un po’ di più, ovvero avviando quella spirale che ha cambiato completamente il mondo in poco più di un secolo. Questo problema si è affacciato già quando eravamo solo un miliardo e mezzo di individui al mondo, ma da trent’anni a questa parte si è creata un’idea del lavoro del tutto dicotomica che ci ha portati a considerare un’invenzione tanto più importante quanto più sottrae posto di lavoro, costringendo due idee opposte a convivere. A metà dell’ ‘800 la qualità della vita ha iniziato a migliorare, così come la distribuzione della ricchezza, ma questa impalcatura sta di nuovo collassando. Le nazioni che sono ancora forti è perché godono di due qualità fondamentali: una fisica, che è costituita dal predominio delle esportazioni, e una metafisica, che si basa sulla coscienza civica, sull’idea di cittadinanza, che entra in gioco specialmente ora che il mondo è troppo popolato.

Il punto debole italiano è la poca esportazione, continua, visto l’enorme potenziale di cui disponiamo ma che non sappiamo sfruttare per questa mancanza di ‘coraggio’. A testimonianza di ciò che dice, Farinetti offre un dato significativo: i turisti annuali in tutto il territorio nazionale sono  di numero inferiore (47,5 milioni) rispetto a quelli della sola Manhattan (52).

Oltre che col patrimonio enogastronomico potremmo fare molto anche con la moda e il design e tenere un livello qualitativamente alto, raddoppiando le esportazioni e gestendo meglio i soldi che tali risorse frutterebbero. Questo argomento è davvero attualissimo e tocca sul vivo i presenti, ma per far capire che con coscienza e coraggio è possibile tagliare questo traguardo, Farinetti punta sul personale, spiegando che suo padre gli ha insegnato a tracciare la linea di confine tra difficile e impossibile, evidenziando quanto sia assurdo spendere all’anno 110 miliardi in gioco d’azzardo e solo 120 in generi alimentari. È necessario puntare sull’export e sui giovani, spiega, e citando De Gregori con il suo ‘nessuno è innocente’, accusa la generazione che oggi ha fra i cinquantacinque e gli ottantacinque anni di aver creato un disastro, e quindi li esenta dal poter dare consigli ai giovani, che qualunque cosa facciano, di sicuro la faranno meglio.

Certo è che se fosse ancora giovane, ammette che andrebbe all’estero, solo per guardare quanto di diverso ci sia rispetto all’Italia, scegliendo fra quelle nazioni che hanno puntato proprio sulle esportazioni e sulla coscienza civica, come i tedeschi e gli americani che parlano sempre ‘infilando un maybe’ nelle loro frasi, a differenza di noi italiani che riusciamo solo a dire ‘io’, senza instillare quel dubbio che spesso è fondamentale.

In realtà Farinetti si dice certo che ogni cosa sia risolvibile e che ormai i nostri numeri siano talmente bassi da non poter far altro che crescere, pur riconoscendo che la vera rivoluzione debba venire dall’alto, col buon esempio. Dimostrazione del fatto che i popoli possano cambiare in poco tempo, sono stati gli esempi di Nelson Mandela e Papa Francesco, o addirittura del nostro Papa emerito Ratzinger che ha avuto il coraggio di dimettersi in un momento in cui la Chiesa era messa anche peggio della politica a causa dei soldi e del sesso, riuscendo in tal modo a cambiare anche la visione di persone laiche, come Farinetti si dichiara.  Dunque il connubio grandi personaggi-buon esempio non può che essere l’input necessario a cambiare la coscienza civica collettiva. Chiude l’argomento giovani esprimendo tutto il suo ottimismo e decretando che, a parer suo, fra dieci anni saremo il paese più ricco e florido d’Europa.

Si va verso la conclusione dell’incontro ed è in questo momento che il patron di Eataly decide di leggere alcune frasi del libro, una su tutte ‘il vino unisce la terra al cielo’, per introdurre il commento finale attraverso l’incipit della pubblicazione e portare a termine il dibattito con una parabola di Matteo.

La riflessione verte sul fatto che di tutte le generazioni umane che si sono susseguite, la nostra verrà ricordata come quella che per prima ha tentato di imitare gli uccelli volando, passando da essere ‘onland’ a ‘online’; presto infatti ‘spiccheremo il volo’ col web, che apporterà cambiamenti notevoli in tempi brevissimi, introducendoci a un mondo in cui non conosceremo limiti e che, a parer suo, sarà molto più democratico e bello. Ciò che dev’essere chiaro però è che ci troviamo nel bel mezzo di un cambiamento epocale, come ha spiegato Tonino Guerra, che si trova a citare: l’uomo deve continuare a guardare avanti ma senza smettere di voltarsi indietro, altrimenti non è possibile crescere, quindi pensare al futuro rispettando le tradizioni.

È giunto il momento delle domande e la prima che gli viene posta è come sia possibile tornare a coltivare senza concimi come ha proposto. Consapevolmente risponde che il problema è in realtà la corretta distribuzione e non la quantità che viene prodotta, visto che quella tuttora disponibile basterebbe a sfamare il mondo intero, ma la maggior parte viene sprecata e buttata, visto che una parte del nostro pianeta ne riceve troppa e l’altra parte troppo poca. I prodotti buoni si producono già, così come quelli ‘puliti’, il passo successivo è quello di renderli giusti, equi.

Gli viene poi chiesto come potrebbe diventare il vino nei prossimi anni. ‘Poco’, è la risposta diretta, visto che i Paesi che ancora non lo conosco inizieranno a farlo (specialmente in Estremo Oriente),e quando accadrà non sarà abbastanza. Per ricollegarsi al tema dei giovani e al loro rapporto col vino, gli suggerisce di andare in campagna, da dove tutto comincia, mentre in linea generale sarebbe il caso di regolamentare la vendita, spingendo affinché una quota possa rimanere in Italia.

In zona Cesarini mi infilo io, aggiudicandomi l’ultima domanda: in pratica chiedo cosa rimarrà secondo lui dell’Expo 2015, un’esposizione universale ottima per noi, per far conoscere il nostro Paese, ma fondamentale  soprattutto per il tema che affronta, ovvero ‘Nutrire il pianeta, energia per la vita’.

Il contenuto è universale ma l’obiettivo è ‘zero persone che abbiano fame’, non bisogna dimenticarlo, e di certo è consapevole che la nostra candidatura fosse già partita con Petrini e la politica dello slow food, del portare all’estero il nostro know how, aiutando i Paesi africani a produrre in autonomia le risorse per sopravvivere. La forza italiana all’Expo sarà proprio quella di far conoscere questo know how e lasciare che ognuno parli della propria biodiversità. Tutta questa imponente narrazione ha il privilegio di essere fatta proprio qui, nel nostro Paese anche se il vero problema sarà l’accoglienza di questa incredibile quantità di turisti. Una soluzione preferibile sarebbe quella di portarli anche verso le campagne e far gioco-forza delle proprie potenzialità, leggendo il positivo di questo immenso evento.

Il mio personale bilancio su quest’incontro è che il signor Farinetti sia un ottimo oratore, dote fondamentale per diventare un grande imprenditore, e che se convincesse grandi personalità a mettere in pratica i suoi propositi allora potrebbe anche accadere che fra dieci anni ci ritroveremo a essere quel bel Paese di cui ci ha raccontato.

Per ora rimbocchiamoci le maniche e pensiamo all’Expo, magari bevendo un bicchiere di buon vino.